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MONTE CAVALLO, la leggenda della prima salita

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Nessuno sapeva perché quel monte delle Prealpi carniche si chiamasse Cavallo. Fin da bambino Giovanni osservava con attenzione le sue piramidi viola, spesso nascoste dalle nuvole. Poi socchiudeva gli occhi per mettere a fuoco su tutto il resto il profilo della montagna. Lo tracciava con lo sguardo sull’azzurro del cielo, aspettandosi che somigliasse al profilo di un cavallo addormentato. Ma quella sua proiezione fantastica mai, neppure vagamente, ricordava l’animale.

“Scoprirò il tuo segreto – diceva allora tra sé e sé il bambino -, un giorno salirò fino alla tua cima e saprò perché ti chiami Cavallo”.

Più Giovanni cresceva, più il suo desiderio di scalare il monte diventava forte. Anche se era nato a Modena, conosceva quel lembo di terra friulana perché trascorreva le estati col padre a Cavolano, un paese lungo la Livenza, proprio ai piedi del Monte Cavallo. La gente parlava di lui come di un “giovane innamorato della Natura”. Osservava ogni cosa: dallo sbocciare dei papaveri al librarsi del polline dagli stami penduli delle graminacee, dalle piante di trifoglio, sperando di scorgere qualche quadrifoglio, che lui chiamava “mutante”, ai frutti esplosivi (fiori bianchi che si trasformano in bacche nere) dei mirtilli. Era andato a caccia di fossili sulle montagne vicentine e veronesi, aveva visitato i Colli Euganei e le Vette Feltrine… ma sentiva che le scoperte più grandi e importanti lo aspettavano lassù, sul monte che dominava sia la pianura friulana che quella veneta. Nessuno ancora aveva domato il Cavallo, nessuno lo aveva scalato e le leggende attorno a quel misterioso “animale” crescevano. Molti ne avevano paura, credendo che fosse abitato da streghe, orchi o spiriti cattivi, altri narravano che la montagna nascondeva tesori preziosi che gli uomini non potevano scoprire, pena la morte.

Una sera di fine giugno, un vecchio boscaiolo di Cavolano raccontò a Giovanni, ormai diventato anziano:
“Lassù tutti hanno paura di arrivare. Si dice che quella montagna sia abitata da un uomo misterioso. Lo chiamano l’eremita. Nessuno lo ha mai incontrato; vive in una baracca, chissà in quale luogo sperduto e segreto, con un cane randagio, nutrendosi di quello che la natura gli offre, delle poche cose che trova. Ha un’età indefinibile, potrebbe avere anche centinaia di anni. Temono sia un uomo cattivo. Ma il fatto più stupefacente è che, in mezzo alle pinete del monte, pare che viva un cavallo selvaggio. E’ un cavallo bianco come la neve. Neppure lui, proprio come il vecchio, si lascia avvicinare. E’ un mistero che fa paura, molti pensano che sia un fantasma…”.

Per tutta la notte Giovanni pensò e ripensò alla storia che il boscaiolo gli aveva raccontato, guardando il Cavallo illuminato dalla luna.
“Ho ormai 64 anni –  si disse -. Non posso rimandare ancora il mio viaggio. Ho sognato di arrivare in cima a quella montagna per tutta la vita: è giunto il tempo che io vada”.

Così, il 3 luglio 1726, l’uomo partì da Venezia, dove da alcuni anni viveva, ben equipaggiato, pronto ad affrontare la scalata. Non partì solo: un caro amico botanico di nome Domenico si offrì di accompagnarlo.
“Portami con te – gli disse-, insieme potremo raccogliere molte più piante ed erbe e magari faremo delle scoperte importanti”.

Giunti ad Aviano, i due amici salirono in groppa a due muli ed iniziarono l’ascesa. I sentieri erano stretti, tortuosi ed aspri; i muli faticavano a camminare, tanto che dopo circa cinque miglia di strada dovettero fermarsi.
“Guarda – disse Giovanni a Domenico -, laggiù c’è una casera abbandonata. E’ ormai sera e i muli non riescono più a salire. Facciamo sosta; mangiamo e riposiamo; e domani riprenderemo il cammino a piedi.

Si addormentarono sotto i rami di un enorme albero ma d’un tratto, nel cuore della notte, Giovanni fu svegliato da uno strano rumore di zoccoli che battevano la terra come in una corsa. Si alzò velocemente e si diresse dietro le piante del piccolo bosco che si trovava poco lontano, da dove gli era parso provenisse il rumore. Si allarmò, però la curiosità di scoprire cosa fosse era più grande.

Una luna piena e luminosa rischiarava il bosco; Giovanni si guardò intorno nel silenzio della montagna. Non vide nulla. Attese, gli parve a lungo. Ancora nulla…
“Avrò sognato” pensò allora tra sé e ritornò verso l’albero sotto il quale Domenico ancora dormiva profondamente.
Ma non appena si voltò il calore di un fiato “forte” scaldò d’improvviso il suo collo. Si rigirò di scatto, col cuore in gola per la paura. Due occhi azzurri grandissimi guardarono nei suoi, gli occhi di un meraviglioso enorme cavallo bianco.

Giovanni indietreggiò solo di qualche passo e rimase ad ammirare quella straordinaria creatura. Era bianca ancor più della neve; la sua criniera, lunga e liscia, quasi risplendeva sotto la luce della luna; il suo corpo era forte, muscoloso, le gambe snelle; lo sguardo era mite e proprio al centro degli occhi una croce dorata ricamava la fronte dell’animale. Mentre l’uomo, stupito, lo guardava, il cavallo avvicinò il muso al suo viso. Allora lui lo accarezzò delicatamente; poi il cavallo si girò e iniziò a camminare piano, nitrendo come per chiedere a Giovanni di seguirlo.

I viottoli lungo i quali l’animale lo condusse erano quasi invisibili in mezzo all’intrico di cespugli e rami di alberi.
“Non riuscirò mai a tornare indietro – pensava -; mi sto inerpicando ma non so neppure dove…”. Non si fermò, seguì il candido animale fino a che, improvvisamente, esso scomparve prendendo il galoppo e Giovanni si ritrovò sulla porta di una baracca di legno. Pareva abbandonata, eppure dalla piccola finestra proveniva una luce fioca e un profumo di camino acceso riempiva l’aria tutto intorno.

Poco dopo la porta si aprì: uscì un cagnetto marrone che, festoso, iniziò a scodinzolare in segno di saluto. Poi una voce lo esortò:
“Vieni avanti”.
Giovanni entrò nella casa. Accanto al camino, dove il fuoco scoppiettava allegramente, sedeva un uomo con i capelli lunghi e grigi, la barba bianca. Era vecchio, il suo viso era segnato dalle rughe, ma i suoi occhi erano dolci, della stessa dolcezza e colore di quelli del cavallo.
“Non stupirti se il camino è acceso in piena estate – gli disse sorridendo -. Il fuoco mi serve per cucinare e mi piace lasciarlo acceso perché rischiara la stanza e tiene compagnia a me e a Socrate”.
Il cane, sentendo il suo nome, gli si avvicinò e il vecchio iniziò a carezzarlo, rivolgendo la parola ancora a Giovanni:
“Non avere paura, nessuno qui ti farà del male. Tu hai amato questa montagna fin da bambino e se il cavallo ti ha portato fin qui vuol  dire che devi sapere tutta la verità…”.
“Verità?” chiese Giovanni sedendosi al tavolo di legno che stava in mezzo alla stanza.
“Il Monte Cavallo – iniziò a raccontare il vecchio – non è un monte qualunque. Esso è custode di molti segreti, di mille incantesimi, dimora di esseri straordinari. Il cavallo con la croce sulla fronte è lo spirito del monte, l’angelo protettore di tutto il territorio che si stende ai suoi piedi. Gli uomini non lo sanno, ma l’animale li protegge e custodisce i loro desideri e le loro più segrete speranze. Guarda – disse indicando il cielo che si scorgeva dalla finestra aperta -, dal monte si possono ammirare tutte le stelle, ed ogni stella è il sogno di un uomo…
Io vivo qui da molti anni, lontano da città e paesi. Assieme al cavallo bianco. Nessuno deve sapere dove vivo, nessuno deve trovarmi, o il Monte perderà la sua magia. Tu mi hai trovato perché il Monte lo ha voluto, ma non dovrai rivelare a nessuno di aver visto il suo spirito e di aver fatto visita alla mia casa. Il cavallo ricorda di quando eri bambino e scrutavi il suo profilo, ha sentito l’affetto che avevi per lui e per questo ha permesso che tu sia il primo a salirlo. Riuscirai a salire la sua cima e io ti aiuterò a capire il suo segreto. Farai importanti scoperte botaniche, ma scoprirai anche che il Monte è magico, abitato da creature incantate. Questa verità dovrai però tenerla nascosta nel tuo cuore e non rivelarla a nessuno”.

Il vecchio parlò ancora a lungo a Giovanni; gli narrò di tutti i piccoli e meravigliosi esseri che dall’inizio dei tempi popolano la montagna: elfi, gnomi, fate… Lo portò nel suo giardino e gli mostrò erbe e piante che Giovanni non aveva mai visto prima, spiegandogli gli usi che di esse poteva fare. Il tempo sembrava essersi fermato.

“Devono essere trascorse molte ore – pensò Giovanni -, eppure la notte non finisce mai”.
“E’ giunto il momento che tu vada” disse allora il vecchio, come se avesse letto nel suo pensiero. Batté le mani e fischiò e dal groviglio di rami e alberi comparve, in tutta la sua maestosa bellezza, il cavallo bianco con la croce dorata sulla fronte.
“Sali in groppa – continuò il vecchio -. Ti riaccompagnerà alla casera. Proseguirai la scalata e giungerai lassù, nel punto più alto del Cavallo. Nel tragitto potrai raccogliere molte delle piante che ti ho mostrato, che tu e il tuo compagno porterete a casa e di questo le future generazioni vi ringrazieranno”.
Giovanni montò sul cavallo, che in una veloce corsa lo condusse sotto l’albero dove Domenico dormiva. Nitrì in segno di saluto e si allontanò, rapido come una nuvola spinta dal vento.

Alle prime luci dell’alba i due botanici-scalatori ripresero il cammino a piedi. Proseguirono per la valle che oggi si chiama Sughet. Attraversarono la Forcella del Cavallo, poi il Dorso di Palantina, la Forcella Sughet… Mano a mano che salivano la vegetazione si faceva sempre più scarsa, gli alberi, le felci e gli arbusti si diradavano e, qua e là, apparivano soltanto nude rocce. Fu un cammino lungo e faticoso. A tratti i due amici pensarono di non potercela fare: gli zoccoli che avevano ai piedi erano scomodi e dovettero procedere a carponi, la strada era troppo impervia, c’era intorno un’aria di desolazione che metteva paura. Quando raggiunsero la cima, increduli, avevano gli occhi bagnati di lacrime per l’emozione e la felicità, ma il monte appariva brullo e come desertico.

“Cosa mai può crescere in mezzo a questi sassi?” stava considerando Domenico, quando d’un tratto, proprio dietro una roccia, Giovanni vide un fiore meraviglioso. I suoi petali sembravano coperti di una lana soffice e sottile, bianca come cristalli di neve e a centro aveva piccoli capolini gialli.
“Guarda che fiore meraviglioso! – esclamò Giovanni -.  È cresciuto qui, su questa rupe inaccessibile. Il suo stelo è forte. Questo fiore è il simbolo del coraggio. Guardalo bene, la sua forma ricorda una stella, una stella caduta dal cielo, lo chiameremo Stella Alpina”.

La stella alpina e tante altre piante furono doni preziosi che Giovanni e Domenico, i primi uomini che scalarono il Monte Cavallo, riportarono a casa.
La relazione sulla salita al Monte Cavallo che Giovanni scrisse è vaga a imprecisa. In molti si sono chiesti il perché. Doveva mantenere la promessa fatta: custodire i segreti del Monte!

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"L’anno 1726, al principio di luglio, partii da Venezia insieme al sig. Domenico Pietro Stefanelli valentissimo botanico. Il viaggio fino ad Aviano, castello del Friuli quasi sul confine del territorio Bellunese, è conosciutissimo e perciò non ne è utile la descrizione. Poi, siccome il nostro Monte Cavallo si elevava di fronte a noi, dovendone intraprendere l’ascensione, forniti di cibarie e seduti sui muli, ci spingemmo in su circa cinque miglia per stretti, tortuosi e aspri sentieri. Si raggiunse uno stavolo abbandonato, e presso un albero che stende i rami ampiamente all’intorno e quivi ristorato il corpo col riposo e coi cibi, salimmo per altre cinque miglia all’incirca, finché entrammo in una valle, dove in una casera stabilimmo la nostra stazione per dare poi la scalata alla vetta più alta del monte. Frattanto perlustrammo da ogni parte le località alle radici del monte, e radunate ivi le raccolte botaniche, lasciati i bagagli e muniti di quegli zoccoli che volgarmente si chiamano drappelle, incominciammo ad arrampicarci verso la vetta, per luoghi scoscesi, spesso camminando carponi, girando però dalla parte esterna del monte, che l’interna era impraticabile. Non è credibile se non a quelli che lo hanno provato, quanto sudore, quanto tormento di sete ci sia costato un tal cammino.
La lunghezza della marcia accrebbe la fatica, infatti si devono percorrere ben sette miglia prima di mettere piede sulla vetta. Quivi una vasta solitudine ed ovunque orridi e scoscesi luoghi: nessun vestigio di abitazione umana né di coltivazione. Ci sostenne soltanto l’amore per le piante e il piacere di raccoglierle alleviò la stanchezza. Esplorata con diligenza anche la cima, carichi di tesori floristici, ci apparecchiammo a ritornare prima ad Aviano e poi a Venezia."
GIOVANNI GIROLAMO ZANICHELLI  

Tratto da "Fiabe e leggende del Monte Cavallo"

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