O là... o rompi
CRESTA DEL BERDO
Testo di Cristiano "Baffo"​
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E’ il 7 ottobre 2019, la sveglia è prima dell’alba perché ci aspetta un viaggio in macchina di circa due ore, una colazione al bar e poi una piccola-grande avventura.
Lo zaino è pronto da due giorni ma l’ho controllato un’ultima volta anche ieri sera, ho voglia di farlo anche questa mattina ma resisto. L’appuntamento con Andrea è al solito posto e siamo puntuali come sempre, però questa mattina c’è più sonno, la giornata è fredda e umida. Si parte, faremo tappa a Gemona a prendere Marco e poi su, fino al Montasio.
Non ci sono mai stato sul Montasio, non ho nemmeno mai visto la sua precisa collocazione nelle carte geografiche; finora il Montasio per me è una cosa avvolta in carta da formaggio da gustare con del pane e del buon vino… che bontà!
Si entra in questa valle con un villaggio incantato, ci sono caprioli che girano tra i giardini delle casette e per le strada ed io penso che lì i bambini vivono dentro un libro di fiabe meravigliose. Passiamo una caserma per poi arrivare al parcheggio; davanti a noi il Montasio, sopra di esso un mare di nuvole, su di noi una pioggia fredda che ci fa capire che la scelta di una parete nord ad ottobre non è una soluzione così furba, ma ci carichiamo in spalla gli zaini e le responsabilità delle nostre decisioni e partiamo per un avvicinamento facile ma lungo.
Prima si percorre il greto di un fiume, poi si entra nel bosco ed infine sul canale di placche glaciali che ci porta sopra le nuvole, fuori dalla pioggia e davanti ad un anfiteatro naturale fatto di pareti verticali e diedri immensi; sotto di noi solo le nuvole ed un puntino rosso che ci guarda come unico spettatore, il bivacco Stuparich.
Siamo all’attacco della via, targa gialla con scritto “O là… o rompi”, sappiamo che sono dieci tiri, che l’hanno tracciata dal basso e che ancora nessuno l’ha ripetuta. E’ la via più importante a cui mi approccio in questo mio primo anno di arrampicata, ma sono sereno perché ho con me le persone che mi hanno insegnato a muovermi in questo mondo di corde, nodi, linee rosse disegnate sulle foto delle montagne e sogni da realizzare spingendo con i piedi e aggrappandosi bene con le mani.
Poesie a parte, fa freddo, ho le mani gelate e vorrei tornare a casa.
Sono le dieci del mattino e non c’è alcuna possibilità che questo pallido e stanco sole si appoggi su di noi, però partiamo, sale Andrea con determinazione ed il suo fare mi dà sicurezza, la roccia è bella ma è gelida. La via è spittata bene ma procediamo lenti, le mani sono insensibili e per quanto cerchi di scaldarle sono sempre più fredde. Forse era il terzo tiro, non ricordo, mangio mezzo panino col formaggio e mi sembra di stare meglio, la temperatura si è un po’ alzata e noi ci siamo scaldati.
“O là… o rompi” verso il quinto tiro smette di essere parete e diventa diedro, quindi è il mio turno di portare su la cordata. I diedri mi piacciono perché mi ricordano il modo in cui salivo sugli alberi da piccolo, mi sento più naturale nei movimenti ed anche se in certi punti il grado di difficoltà comincia a salire mi diverto. I miei amici salgono sempre sorridenti e motivati, stiamo facendo la nostra piccola impresa ed il morale è alto, fa sempre freddo ma ormai ci siamo abituati.
Eccoci arrivati al tiro chiave, il sesto grado.
Parto, da subito si sente che è duro, dopo i primi tre movimenti mi rendo conto che non sto respirando, metto il rinvio, passo la corda e prendo aria, Marco mi incita; da qui in poi è totale immersione tra me e l’ambiente, tutto scorre fluido, i piedi sono precisi negli appoggi e negli spalmi delle placche del diedro, vedo la sosta e capisco che posso finire il tiro nel migliore dei modi anche se comincio a percepire la stanchezza che poi si manifesta subito dopo essermi assicurato alla sosta. E’ tempo di far salire i compagni di avventura, urlo:
“LIBERA!”
con tutta la soddisfazione che ho dentro e penso a mio figlio e alla sua voglia di imparare ad arrampicare e so che con i miei grandi amici potrò dargli tante opportunità. Penso al mio amore per gli spazi aperti, gli orizzonti fatti di cime altissime che ti sovrastano e quelli fatti di oceani che ti assorbono.
Recupero corda mentre Marco ed Andrea affrontano la salita e per distrarmi dalla stanchezza continuo a pensare alla meraviglia del posto che ci ospita, ma ecco il caschetto rosso di Marco che mi raggiunge in sosta tra mille sorrisi e sotto si intravvede Andrea che tra mille imprecazioni ci fa ridere come quando si ride da bambini.
Eccoci insieme, c’è l’ultimo tiro da affrontare, io non me la sento di ripartire, la stanchezza è tanta ed ho paura di sbagliare e complicare il viaggio di tutti; Marco è il più fresco e tecnicamente il più bravo tra noi, prende il comando e ci porta in vetta della cresta Berdo. Arrivo su per ultimo ed il panorama è spettacolare, la gioia: indescrivibile. Il nostro piccolo Everest ci aveva accettato e ci aveva concesso di godere della sua dura bellezza. Ora, quando sentirò nominare il Montasio non penserò più ad un piacere gastronomico.
Facciamo le foto di rito, libro di via inserito in una “scatola del tempo” che abbiamo lasciato sotto a dei sassi e si preparano le corde per le calate: le ultime due saranno nel buio totale, con le frontali accese, ma dopo un tramonto che per ora ricordo come il più bello ed il meglio vissuto.
Si scende con le corde, Andrea è un grande, scende con l’abilità del miglior Batman mentre Marco ha più lo stile dei corpi speciali della SWAT… io invece arranco e mi sento molto Super Pippo in carenza di noccioline americane!
Siamo giù, ci aspetta la discesa nel bosco al buio e con la nebbia, si cammina sulle tracce dei selvatici attraverso i mughi fino a trovare il sentiero del CAI, siamo stanchi e felici ma non sappiamo se più uno o l’altro.
Ora il ricordo è solo felicità.
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